Discorso del presidente Roberto Paura all’Assemblea Costituente dell’IIF sabato 28 settembre 2013 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
Vorrei iniziare ringraziando l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, per l’ospitalità che ha voluto concedere a questo evento. Quando abbiamo iniziato a pensare a dove tenere l’Assemblea Costituente dell’Italian Institute for the Future, subito ci siamo detti che l’IISF fosse la sede più adatta. Non solo per il grande valore storico del Palazzo Serra di Cassano, un palazzo che da sempre è stato faro dei principi illuministi in una città in cui, inutile negarlo, le ombre prevalgono sulla luce. Ma anche per lo straordinario carattere interdisciplinare dell’Istituto. Qui molti di noi hanno potuto ascoltare conferenze, lezioni, seminari di filosofia, di storia, di scienze. E l’Italian Instute for the Future condivide con l’IISF il carattere interdisciplinare, la convinzione cioè che le grandi sfide del futuro si possano affrontare solo se si abbattono i muri che dividono i settori del sapere e si è in grado di fondere il sapere umanistico con quello scientifico. Grazie quindi al Presidente Marotta e al Prof. Gargano, che ha accolto subito con entusiasmo la nostra proposta.
Le sfide del futuro, dicevo. Perché è da qui che nasce la “nostra proposta”, l’Italian Institute for the Future. Ieri il panel internazionale sul cambiamento climatico dell’ONU ha presentato il suo quinto rapporto, a cinque anni dal precedente. Gli scienziati sono unanimi nel sostenere che, se entro dieci anni non invertiremo la tendenza, le temperature medie saliranno di 4° e i mari si solleveranno di 60 cm entro la fine del secolo. Per capire cosa vuol dire, basti pensare che il clima della Terra tornerà a essere quello che c’era al tempo dei dinosauri, prima dell’avvento dell’uomo, mentre intere città costiere saranno sommerse. Probabilmente nel 2100, o anche prima, scenderemo da Monte di Dio e faremo il bagno a piazza Plebiscito. Dieci anni, in questi casi, è come dire “dopodomani”. Eppure è il tempo che ci è rimasto, nonostante sono ormai trent’anni che siamo consapevoli del problema del riscaldamento globale legato alle emissioni di gas serra da parte delle nostre industrie, delle nostre auto, degli aerei, degli allevamenti intensivi, del disboscamento. E non si è fatto niente, in questi trent’anni.
Pensiamo a fatti più concreti e vicini alla nostra esperienza quotidiana. Qualcuno ricorda quante riforme delle pensioni sono state fatte negli ultimi quarant’anni? Non credo. Eppure il problema è molto semplice e prevedibile: l’aspettativa di vita è aumentata al ritmo di un anno di vita in più ogni quattro anni, con il risultato che nel 1973 era di 71 anni e oggi è di 81. Viviamo in media dieci anni in più, ma il sistema pensionistico non è in grado di pagare dieci anni di pensione in più. Magari possiamo risolvere il problema accumulando debito pubblico. Lo abbiamo fatto per oltre cinquant’anni. Oggi però ci siamo svegliati e ci siamo accorti che troppo debito fa male. L’Istituto Bruno Leoni ci ricorda che i nostri figli nascono con un debito pubblico pro-capite di 30.000 euro. Una pesante eredità, non c’è che dire.
Cosa ha fatto la politica per risolvere questi problemi? Quello che fa la peggiore delle casalinghe (o dei casalinghi): mettere la polvere sotto il tappeto. Ma la polvere man mano si accumula e prima o poi il tappeto non basterà a nasconderla. Così oggi ci troviamo nella situazione che conosciamo. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo. L’Italia, dal canto suo, ha più di un problema con il futuro. Basti pensare al teatrino a cui assistiamo in televisione con gli annunci di tasse cancellate oggi per essere reintrodotte domani. In due anni abbiamo avuto tre governi e probabilmente ne avremo un quarto a breve. Qui a Napoli proprio oggi doveva essere inaugurato il Forum delle Culture, assegnato alla città nel lontano 2007. In sei anni l’amministrazione comunale non è riuscita a realizzare neanche un evento del Forum. Eppure si parla tanto di futuro. Sentiamo parlare del futuro dei giovani, del futuro dell’Italia, del futuro dell’innovazione. “Futuro” è una delle parole più amate da chi fa politica. Peccato però che resti solo una parola. Quando abbiamo deciso di fondare questo Italian Institute for the Future, abbiamo preso l’impegno di trasformare questa parola in una realtà. Di rendere concreta quest’idea che molti considerano astratta. Di cominciare davvero a costruire il futuro.
Per spiegarvi in breve qual è la missione dell’IIF, bastano infatti due parole: “prevedere” e “costruire”. È per questo che abbiamo scelto come motto la famosa frase di Alan Kay, informatico e visionario americano: “Il miglior modo di prevedere il futuro è costruirlo”. L’originale dice to invent it, “inventarlo”, ma preferiamo tradurlo come “costruirlo”, perché dire che per predire il futuro bisogna inventarlo sembra un po’ dire che tiriamo a indovinare. Invece l’IIF intende queste due parole alla lettera: prevedere il futuro e costruirlo.
Da sempre l’uomo cerca di prevedere il futuro. L’oracolo di Delfi, la Sibilla cumana, gli aruspici romani, i profeti, i veggenti come Nostradamus, fino ai medium di oggi, sono tutti tentativi di “vedere” il futuro, il territorio inesplorato per antonomasia. Negli ultimi decenni abbiamo iniziato a farlo con mezzi molto meno mistici di quelli usati dai nostri antenati. Con i computer abbiamo iniziato a sviluppare simulazioni in grado di prevedere l’evoluzione di alcuni sistemi, come il traffico automobilistico o la diffusione di una pandemia virale. Con la branca dei sistemi complessi abbiamo iniziato a comprendere matematicamente il comportamento del clima, e da lì ci stiamo avvicinando a prevedere anche fenomeni umani, come la dinamica della criminalità in aree specifiche, o la possibilità che esploda una nuova crisi economica. Progetti di ricerca per la previsione sociale, che incrociano sociologia, politologia, economia e matematica, sono all’ordine del giorno all’estero e ricevono finanziamenti anche da grandi gruppi industriali e tecnologici, alcuni dei quali mettono a disposizione i propri supercomputer per sviluppare simulazioni altamente realistiche. A queste analisi quantitative si accompagnano le più tradizionali analisi qualitative, che attraverso lo studio del passato e del presente giungono a prevedere i trend e i megatrend del futuro. Oggi questa disciplina è chiamata futures studies, studi sul futuro, o meglio “sui futuri”, perché di futuri ce ne sono tanti. Esistono centri di futures studies in molte parti del mondo: negli Stati Uniti, dove sono nati, come in Canada, in Inghilterra, in Francia, in Scandinavia, ma anche in Egitto o in India. In Italia no.
Eppure l’Italia ne avrebbe davvero bisogno. Il famoso editorialista e scrittore americano Thomas Friedman ha scritto proprio ieri sul New York Times che i paesi che non pianificano il futuro sono destinati al declino. E Friedman si stava riferendo agli Stati Uniti. Immaginate cosa penserà dell’Italia. Oggi ogni paese del mondo dovrebbe pianificare le proprie politiche in un’ottica pluridecennale, se vuole sopravvivere alle sfide del futuro. Vale la pena ricordare – lo abbiamo scritto anche nella presentazione cartacea che avete ricevuto – che il fisico e astronomo Lord Martin Rees, presidente della Royal Society, sostiene che l’umanità abbia una possibilità su due di non sopravvivere a questo secolo. Ebbene, se dovessimo fare una previsione anche noi, l’Italia sarebbe tra le prime nazioni a non sopravvivere.
Provare a predire il futuro, o meglio ad elaborare degli scenari previsionali sul futuro a lungo termine, non può essere dunque il solo scopo di un progetto come il nostro. A differenza dei tradizionali centri di futures studies, l’IIF non si limita a predire, ma anche a costruire. Il futuro, lo sappiamo, non è scritto o predeterminato; esiste come probabilità. Come nel caso del principio di indeterminazione della fisica, il futuro è solo un insieme potenzialmente infinito di scenari realizzabili, finché l’uomo non l’osserva e osservandolo fa “collassare” i tanti futuri possibili in uno solo. È a noi quindi che tocca il compito di decidere quale futuro vogliamo. Oltre a prevedere una serie di possibilità, dobbiamo lavorare per realizzare la migliore possibile. Questo vuol dire fare dell’IIF un autentico “movimento per il futuro”; per questo abbiamo preferito anche non chiamarci “Institute for Futures Studies” come molte realtà simili, ma “for the Future”, per il futuro, cioè a favore del futuro. Noi vogliamo essere qualcosa di simile, per capirci, a un movimento come Greenpeace, che porta avanti i suoi principi sensibilizzando l’opinione pubblica e facendo lobbying a livello politico.
Quando dico “lobbying”, intendo l’accezione positiva del termine: una pressione sui decisori politici affinché inizino ad aprire gli occhi e a comprendere l’importanza di una pianificazione a lungo termine, di leggi che producano effetti non solo per l’oggi, ma anche per il domani. E questo è uno dei nostri obiettivi più importanti. L’altro è rivolto, invece, all’opinione pubblica. Perché, diciamoci la verità, quanti di noi si preoccupano davvero per il futuro? Quando parliamo del 2050, immaginiamo scenari fantascientifici che non vedremo mai. Ma non è così. Il 2050 è tra trentasette anni. Buona parte di chi oggi si trova in questa sala sarà ancora vivo quell’anno. E sicuramente lo saranno i nostri figli. Il futuro deve importarci, perché è dove vivremo il resto della nostra vita. Non siamo stati abituati a pensare sul lungo periodo, ma dobbiamo iniziare a farlo, come le formiche che si preparano per l’inverno. Le formiche vivono in media un paio d’anni, ma pianificano per l’anno successivo. Fatta la dovuta comparazione, sarebbe come se noi programmassimo con un orizzonte di quarant’anni. Ma non lo facciamo. Non ci meravigliamo allora se le formiche esistono sulla Terra da 150 milioni di anni, e sono passate indenni attraverso più estinzioni di massa, mentre la nostra specie esiste da appena un milione di anni, ed è stata più volta sull’orlo dell’estinzione.
Cambiare abitudini e modi di pensare non è facile. È per questo forse che i soci fondatori dell’IIF sono tutti molto giovani. La nostra generazione ha subito più di tutte le conseguenze della mancata programmazione, della ristrettezza di vedute della politica, dell’incapacità di pensare al futuro. Il Sud Italia, in particolare, soffre da ormai due secoli una crisi insanabile, dovuta all’inadeguatezza della sua classe dirigente e al menefreghismo di buona parte dei suoi abitanti. Oggi molti nostri coetanei sono emigrati al Nord e all’estero; chi resta deve accontentarsi di lavori di basso profilo, perché il Mezzogiorno non ha bisogno di giovani formati e qualificati, non avendo posti per loro. Non meravigliamoci allora della decadenza che il Sud e tutta l’Italia vivono ormai da anni. Non accusiamo, come al solito, gli altri: i Savoia ieri, la Germania oggi, o Bruxelles. La colpa è nostra. Un uomo che si taglia le gambe è un pazzo destinato a morire. Ma è questo che l’Italia sta facendo. Per questo crediamo tocchi a noi, a tutti noi, darci da fare per cambiare il nostro futuro. Non ci facciamo illusioni. Non crediamo sia un compito facile, tutt’altro. Forse non ci riusciremo, forse falliremo. Ma ci proveremo. Come disse il presidente Kennedy al Congresso degli Stati Uniti nel 1961, quando annunciò che entro quel decennio l’America avrebbe mandato un astronauta sulla Luna, “abbiamo deciso di farlo non perché sia facile, ma proprio perché è difficile”.
Grazie!
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